sabato 15 marzo 2008

Afghanistan... truppe si truppe no....ma chi lo conosce veramente?

Quante volte accendendo la tv o leggendo un giornale abbiamo ascoltato o letto ciò che i nostri politici avevano da dire sulla missione italiana in terra Afgana. Quante volte abbiamo discusso sulla possibilità di ritirare le truppe o inviare nuove attrezzature che siano “di pace e non di guerra”.

Ora i tempi sono cambiati; il dibattito parlamentare ha altri grattacapi e l’Afghanistan non è più al centro dell’audience. Personalmente ho avuto la grandissima fortuna di conoscere persone che hanno vissuto l’Afghanistan, militari che hanno messo a disposizione di un paese travagliato da continue guerre e repressioni la loro esperienza. Ascoltare le piccole storie di italiani così distanti dai salotti dove si parla il “politichese” ha permesso, in parte, di superare la mia personale ignoranza. I militari italiani in Afghanistan sono circa 2.350. Due i contingenti principali, nella capitale Kabul e a Herat, nell’ovest del Paese, entrambi inseriti nella missione Isaf della Nato; ad Eupol, la missione dell’Unione europea per la ricostruzione della polizia civile locale, partecipano invece una trentina di carabinieri.
In Afghanistan l’Italia in questo momento ha una doppia responsabilità: dal 6 dicembre scorso ha assunto a Kabul il Regional Command Capital, che per nove mesi sarà sotto la guida del generale Federico Bonato, mentre a Herat il generale Fausto Macor comanda tutte le forze Isaf che operano nella Regione Ovest, dove continua ad operare il Provincial reconstruction team a guida italiana.
A Kabul, in particolare, l’Esercito è presente con una unità di manovra (Battle group 3), che contribuisce alla sicurezza nell’area della capitale, un reparto logistico, uno di genieri, uno delle trasmissioni, un’aliquota Nbc (per la bonifica da aggressivi nucleari, biologici e chimici), personale di collegamento e di staff. A Kabul c’è anche una componente elicotteristica con tre AB212 e un CH 47. Un’ulteriore componente aeronautica è schierata ad Abu Dhabi e costituisce il reparto distaccato della 46/a aerobrigata: con 3 velivoli da trasporto C130J assicura il ponte aereo logistico con il teatro di operazioni.
A Herat, invece, l’Italia contribuisce alla gestione della base di supporto logistico (Fsb) a guida spagnola e coordina i quattro Prt della regione ovest del Paese (quei Team di ricostruzione con cui la Nato ha esteso la presenza della missione Isaf in tutto l’Afghanistan): oltre a quello di Herat, gestito direttamente dagli italiani, quelli di Farah, Badghis e Ghor. Il contributo militare è fornito essenzialmente dall’Esercito, con la Task force Lince, che gestisce il Prt di Herat, e dall’Aeronautica, con la task force Aquila. Presente a Herat anche un Task group di Forze speciali italiane, tre Operational and Mentoring Liaison Team (che affiancano l’esercito afgano con compiti addestrativi)e un nucleo di 16 militari della Guardia di Finanza per formare la polizia doganale afgana. La componente aerea è costituita da elicotteri (cinque Mangusta), un C130 da trasporto e aerei senza pilota Predator. I Prt si occupano sostanzialmente della costruzione di importantissime infrastrutture per la gestione della missione; tali opere resteranno parte del territorio e quindi di proprietà del paese. La formazione delle elementari istituzioni d’autorità come le dogane, la polizia e gli enti pubblici sono uno degli obiettivi della forza di pace e passaggio obbligato verso la costruzione di uno Stato in grado di servire le comunità. Parte dell’Afghanistan è tuttora di tipo feudale; i signori “di zona” controllano i traffici di droga e armi. La loro influenza si ripercuote anche sui rifornimenti destinate alle truppe NATO; è impensabile passare via terra in un territorio da loro controllato senza lasciare “doni”. La coercizione verso questi ultimi si rivela controproducente perché altamente destabilizzante e pericolosa per i militari ed i civili. I “clan” così regolati hanno una cultura sostanzialmente guerriera e difficilmente comprensibile dalla società occidentale. Imbracciare un AK47 a 14 anni significa realizzarsi, diventare adulto. La cultura sociale cambia totalmente nelle grandi (e ricche) città crocevia dei commerci verso l’Iran e la Turchia.

L’errore è considerare il popolo afgano arretrato; i mercanti hanno una spiccata capacità di contrattazione oltre ad un’abilità non comune nell’artigianato. Chi non ha osservato i buffi indumenti indossati nel deserto? Il confronto con le tute super tecnologiche dei militari ci farebbe sorridere. Provate a chiedere a qualsiasi militare italiano quanto avrebbe pagato nel deserto per avere un abito afgano e capirete quanto un uomo può vivere di stereotipi.

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